di Guido Talarico

Le collezioni d’arte hanno una doppia valenza: costituiscono un valore economico e un valore culturale. Il patrimonio economico è misurabile attraverso criteri contabili, il patrimonio culturale esprime invece un valore etico di tipo strategico. Per patrimonio culturale va infatti inteso l’insieme di beni di particolare rilievo storico, sociale ed estetico che insieme costituiscono la ricchezza di un luogo e della sua popolazione. Per esprimere un giudizio sintetico su come le due principali banche italiane hanno gestito le rispettive collezioni d’arte si può utilizzare una metafora calcistica e dire che Intesa batte Unicredit 3 a 0. Il modo in cui i due istituti di credito hanno deciso di utilizzare il proprio patrimonio culturale indica strade opposte: una lodevole, l’altra biasimevole. Vediamo i fatti. Intesa San Paolo, dietro imput dell’Ad Carlo Messina (a sinistra nella foto),  a partire dal bilancio 2017 ha deciso di far entrare il meglio della sua collezione artistica nelle attività strutturali della banca. In altre parole per Intesa questi beni entrano a tutti gli effetti a far parte del patrimonio del gruppo. Una vera e propria rivoluzione, per altro poco valorizzata anche dalla grande stampa, che ha un duplice positivo effetto: da un lato rafforza il valore degli asset aziendali, e quindi tutela gli azionisti, dall’altro indica al mercato una direzione chiara legittimando definitivamente l’arte come bene oggetto di investimenti finanziari. Per valorizzare questa sua collezione, una delle più ampie al mondo in assoluto, Intesa ha naturalmente fatto le cose secondo prassi, affidando cioè le valutazioni dei beni artistici ad un gruppo di advisor indipendenti e lavorando in costante contatto con Banca d’Italia. Ho detto rivoluzione perché effettivamente di questo si tratta. Quella di Intesa è infatti una innovazione assoluta che fa chiarezza metodologica ed aziendale su come gestire un pezzo importante del patrimonio aziendale di molte banche, mettendo di fatto fine a quella zona di incertezza che per decenni ha portato istituti di credito piccoli e grandi a gestire i propri beni artistici senza la dovuta trasparenza. Questo da un punto di vista patrimoniale e bancario. Poi c’è il valore culturale, di cui dicevo all’inizio. E qui mi sento di dire che l’operazione di Intesa ha un valore storico ben superiore al valore economico. Il nostro Paese, come è noto, ha un patrimonio artistico e culturale tra i più importanti al mondo. Ma come è altrettanto noto non sa sfruttarlo adeguatamente. Nessun governo è riuscito a farlo diventare l’asset strategico portante e a trasformarlo in vero volano dell’economia nazionale. Lo capiscono e lo dicono tutti, basterebbe anche poco per farlo ma finora in Italia arte e cultura sono rimasti in larga parte obiettivi mediatici da usare ai convegni o in campagna elettorale e niente di più. Intesa, che è una banca non una onlus, invece col suo operare certifica il valore patrimoniale e strategico dei beni culturali e così facendo non indica “una” direzione, ma “la” direzione per un utilizzo appropriato di questo comparto. Di contro cosa fanno in Unicredit? Anziché valorizzare vendono il proprio patrimonio culturale. Il che, dal mio modesto punto di vista, è una decisione aberrante. E spiego perché. In primo luogo dimostrano di non aver capito il valore strategico che, soprattutto in un Paese come il nostro, possiede intrinsecamente ogni patrimonio culturale. Vendere 60.000 opere (o buona parte di queste) che rappresentano la storia, il sacrificio di tanti clienti e, in qualche modo, la stessa identità dell’istituto di credito, significa dimostrare una sensibilità umana prima ancora che culturale vicina allo zero e una visione imprenditoriale da piccola azienda. Le motivazioni fornite ufficialmente poi rasentano il ridicolo. Vendiamo, ha fatto sapere l’Ad Jean Pierre Mustier (a destra nella foto), per ricavare (almeno) 50 milioni e finanziare il “Social impact banking”, cioè finanza agevolata per progetti di valore sociale. Una pezza che è peggio del buco. Ma come, una banca che dice si essere in gran spolvero e in piena fase di rilancio ha bisogno di vendere i gioielli di famiglia per finanziare progetti sociali? Per me è l’ammissione di una doppia sconfitta. Mancanza di visione e mancanza di risorse per progetti sociali. Ma ancor peggio la scelta di Mustier è uno schiaffo alla storia di un istituto di credito il cui patrimonio culturale è figlio in larga parte dei sacrifici di tante famiglie e di tante imprese italiane. Nicolò Machiavelli diceva che “gli uomini dimenticano piuttosto la morte del padre che la perdita di un patrimonio”. Tenere le cose insieme, valorizzare un patrimonio antico dal forte valore emotivo salvava l’anima di una banca che ha già subito varie batoste e dava una prospettiva anche al Paese. Alla luce anche di questi fatti bisogna dire che aveva ragione Emmanuele Emanuele quando, in tempi non sospetti, decise di fare uscire la sua Fondazione Roma dal capitale di Unicredit. Salvò il suo patrimonio economico, salvò anche la sua collezione d’arte.