Questa volta Gian Maria Tosatti ha rivelato qualcosa di molto intimo. Con il suo ultimo progetto ha messo a nudo la coscienza delle persone, catturandola come se fosse riflessa in uno specchio. My Heart is a Void, the Void is a Mirror è un lavoro itinerante che dura da due anni e che indaga la dissoluzione della democrazia. L’artista si è ispirato all’ultima trilogia di romanzi di Louis Ferdinand Céline e, come in un romanzo visivo, ha creato degli episodi. Ogni episodio è una città. Città usate come testimoni delle atrocità dei totalitarismi, che hanno comportato il versamento di sangue in nome di ideologie di odio. Il primo episodio a Catania, L’Italia, per Manifesta 12. La seconda è stata presentata a Riga, in Lettonia, il 6 settembre 2018.
Il mio cuore è così lez soos ‘n spieël è stato invece il terzo episodio, realizzato a Cape Town, dove l’artista è stato residente da febbraio di quest’anno. La mostra ha inaugurato pochi giorni fa nell’archivio A4 Nowhere e ha chiamato in causa le responsabilità collettive della società durante gli anni dell’Apartheid. Una cruda e drammatica verità, che non sempre fa piacere conoscere e di fronte alla quale è più semplice chiudere gli occhi e dimenticare. Dimenticare di essere stati testimoni inermi, in qualche maniera corresponsabili. L’artista mette a nudo questo lato nascosto delle coscienze degli individui, facilitando, però, allo stesso tempo quel processo di consapevolezza, il migliore incentivo possibile a un cambiamento culturale.
”Questa volta – scrive Tosatti nel catalogo – sono interessato alla prospettiva delle persone che sono passate attraverso anni difficili senza cicatrici o ferite visibili. Erano parte di un sistema ed erano alieni allo stesso tempo. Erano nel corso della storia, seguendo il flusso. Durante i fascismi, quello accaduto in Europa nella prima metà del secolo scorso e quello del Sudafrica nella seconda metà, la maggior parte delle persone non ha commesso atrocità, ma erano presenti durante la deportazione, la segregazione avveniva sotto i loro occhi e le leggi razziali sono state proclamate. A volte hanno girato la testa, a volte hanno creduto alle azioni di propaganda.
La storia europea ha avuto prove, c’è stato Norimberga, ma la maggior parte dei conti è avvenuta davanti allo specchio e ci sono voluti anni per estirpare una cultura omicida. In Sud Africa il processo di cambiamento era politico e intimo. Non era basato su una carneficina, ma in un lento risveglio della consapevolezza. Oggi mi interessa quell’intimità, quegli specchi. E la frequenza del respiro prodotta da chi si trova di fronte alla propria immagine sfocata, in attesa di vederla chiara di nuovo. Il lavoro che produco non è una dichiarazione politica. È un’umana esitazione, un senso molto personale di perdita”.
RED/Giut