«Abbiamo vinto un’altra volta. Evviva evviva evviva. Il razzismo la paga cara: Roberto Calderoli condannato in primo grado ad un anno e sei mesi per avermi rivolto insulti razzisti». E’ un messaggio di grande gioia quello che l’europarlamentare del Pd ed ex ministro dell’Integrazione, Cecile Kyenge scrive sul suo profilo Facebook per commentare la decisione del Tribunale di Bergamo. «Anche se si tratta del primo grado di giudizio, e anche se la pena è sospesa – scrive l’europarlamentare – è una sentenza incoraggiante per tutti quelli che si battono contro il razzismo. Perciò esprimo la mia soddisfazione per questa vicenda: non solo per questioni personali, ma anche perché la decisione del Tribunale di Bergamo conferma che il razzismo si può e si deve combattere per vie legali, oltre che civili, civiche e politiche».
Il tribunale di Bergamo, con una sentenza per niente scontata, ha comminato a Calderoli una condanna da un anno e mezzo di carcere per diffamazione aggravata dall’odio razziale. La vicenda che fece gridare allo scandalo mezzo arco costituzionale, leghisti esclusi naturalmente, risale al 13 luglio 2013 quando il senatore leghista dal palco della festa di partito a Treviglio, davanti a 1.500 persone, aveva inveito contro l’allora ministro per l’Integrazione utilizzando il tipico umorismo del bieco razzista. «Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto — aveva scandito davanti alla piccola folla leghista — ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango».
Un’uscita gravissima che suonò subito storta anche sulla bocca di un noto razzista, figlio di quegli illustri padri del genere che vanno da Borghezio a Bossi. Nel giro di soli quattro giorni Calderoli finì indagato dai pm di Bergamo Gianluigi Dettori e Maria Cristina Rota con l’ipotesi di diffamazione aggravata dall’odio razziale.
Calderoli, che tendenzialmente spara battute razziste per ingraziarsi il suo elettorato e per conquistare qualche prima pagina dei giornali simpatizzanti, aveva subito capito di averla fatta grossa e aveva cercato di metterci la classica pezza a colori. Si dera precipitato dalla Kyenge con una mazzo di fiori e aveva porto le sue più sentite scuse. Ma la frittata era ormai fatta con il processo incardinato e il tribunale in moto.
Ad un certo punto però la vicenda giudiziaria sembrava mettersi a favore di Calderoli. Il 16 settembre 2015 il Senato, dando un’ennessima brutta immagine di sè, votò infatti con 126 voti favorevoli, 116 contrari e 10 astenuti «l’insindacabilità delle dichiarazioni di Calderoli in quanto opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni». Una follia. Ma il voto è voto. A Calderoli per qualche tempo tornò il sorriso e forse anche la tentazione della replica.
Ma il Tribunale di Bergamo non condivise quel voto e, sollevando il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato, fece ricorso alla Consulta. E la Consulta gli diede ragione riaffidando Calderoli alla giustizia ordinaria. Il processo da allora ha vissuto fasi alterne, qualche rinvio, con una difesa impegnata a contestare l’incontestabile (perfino la registrazione audio del comizio) e a chiedere l’assoluzione del parlamentare leghista. Ora la sentenza di primo grado che, pur diminuendo la pena dai due anni richiesti dal Pm a un anno e mezzo, mette un punto e stabilisce che in questo paese il razzismo, come giustamente sottolinea la Kyenge, si può battere.
«Umanamente non ho nulla contro Calderoli. Si è scusato più volte, anche per la cosa tragicomica della macumba. E ho accettato le sue scuse. Ma la giustizia è giustizia, e sono contenta che i giudici, soprattutto in questo momento storico, abbiano voluto intervenire». Anche perché, ha aggiunto la Kyenge «le parole pesano: non sono stata io a sporgere denuncia, ma è un bene che la magistratura intervenga. La politica, invece, si è distratta. Compreso il Pd. A Strasburgo per chi si macchia di parole razziste o discriminatorie, si toglie l’immunità e la diaria».
(RED/Giut)