Di Luciano Mariotti
Il paese ha bisogno d’infrastrutture. Lo dicono tutti: i numeri, gli analisti, gli imprenditori, il sindacato. Una visione unanime che però non trova riscontro e risposte nelle scelte politiche capaci di concepire una manovra finanziaria che stimola poco la crescita e trascura appunto le infrastrutture. Sul valore strategico degli investimenti in infrastrutture come leva di crescita di Pil ed occupazione del resto non si dovrebbe avere dubbi. I numeri poi, che la politica evidentemente fa finta di non vedere, sono eclatanti. Il mercato globale delle infrastrutture presenta infatti un tasso di crescita media annua per il periodo 2016-2021 superiore al 6%, rispetto a circa il 1,3% registrato in Italia.
Il segmento delle infrastrutture, neanche a dirlo, da noi è in crisi da oltre 10 anni con gli investimenti infrastrutturali in continua decrescita per un valore di circa 11 miliardi in 10 anni, pari ad una contrazione del 26%. Per quanto riguarda il contributo del settore delle infrastrutture in rapporto al PIL del paese, esso ha iniziato un processo di decrescita a partire dal 2004, passando dal 3% al minimo storico del 1,9% nel 2017, con una conseguente perdita di occupazione e di investimenti. Questa situazione di contrazione continua degli investimenti nel settore, aggiunta alle difficoltà nella realizzazione dei progetti già approvati, ha determinato in Italia dal 2008 una perdita di oltre 600 mila posti di lavoro e il fallimento di 120 mila aziende. Una vera ecatombe produttiva.
In un contesto del genere le conseguenze negative per l’Italia sono tanto drammatiche quanto inevitabili. Ad oggi otto delle principali 20 società italiane sono in crisi. Conclamate le conseguenze nefaste per i lavoratori. La crisi delle principali aziende italiane del settore ha messo a rischio il posto di lavoro di circa 30mila lavoratori. Oltre ad investimenti in continua decrescita, il settore registra anche difficoltà strutturali per il mancato avvio di progetti già approvati, e l’esecuzione dei progetti già avviati, a causa di processo amministrativi estremamente complessi e, naturalmente, a causa di un apparato burocratico inefficace.
Al momento, tanto per fare qualche esempio, tra Astaldi, Condotte, Trevi e CMC, si contano oltre 22 progetti infrastrutturali a rischio sparsi in tutto il paese. Un eventuale blocco di questi progetti rappresenterebbe un enorme problema sociale per tutto il paese e soprattutto per il sud Italia dove sono in esecuzione circa il 40% dei progetti menzionati. Proprio Astaldi il 28 settembre ha presentato domanda di concordato in bianco ed ha ricevuto recentemente un downgrade da Moody’s, S&P e Fitch. Tanto che, è notizia di queste ore, Istituzioni e Banche hanno coinvolto Salini Impregilo in un’iniziativa per tentare il salvataggio. Secondo quanto anticipato dal Corriere della Sera, il gruppo guidato da Pietro Salini a breve formalizzerà una proposta di acquisto non vincolante. Citando fonti vicine agli advisor, Vitale & Co. e Bank of America Merrill Lynch per parte Salini Impregilo, lo Studio Laghi per Astaldi, il quotidiano di via Solferino nell’annunciare l’operazione giustamente sottolinea come la mossa di Salini sia una risposta di sistema, di tipo istituzionale. Un gesto di responsabilità, con il primo gruppo del paese che, nonostante un quadro politico così scoraggiante, e nonostante una quota di oltre il 92% del fatturato realizzato all’estero, scende in campo pur di salvare il secondo e lo fa senza inseguire fantomatici prestiti ponte erogati a tassi d’usura.
Che è poi un modo – quello del Corriere della Sera – di sottolineare come su un’operazione del genere sia fondamentale che oltre ai privati anche il pubblico faccia la sua parte. Salini Impregilo e Astaldi hanno infatti almeno ,solo in Italia,cinque progetti strategici in comune disseminati in tutto il paese: dall’Alta velocità ferroviaria Verona-Padova alla metro Blu di Milano, dall’Alta capacità ferroviaria della tratta Napoli – Foggia – Bari alla Statale 106 Jonica e all’altra tratta ferroviaria che collega Bicocca Catenanuova nella linea Messina – Catania – Palermo. Progetti altamente strategici che possono occupare seimila persone.
Insomma, anche quando le due aziende leader del settore provano a trovare autonomamente soluzioni efficaci, con responsabilità personali dei membri dei consigli di amministrazione, è fondamentale che ci sia la volontà pubblica di fare efficacemente la propria parte per consentire che la possibile transizione e gestione degli appalti già assegnati avvenga senza intralci ed anzi facilitata. Vedremo se così sarà.
Restando a Salini Impregilo, in un’intervista a Repubblica il Presidente del colosso romano delle costruzioni si è detto pronto ad andare avanti sia sul fronte Astaldi che sulla costruzione del ponte Morandi, appalto, ribattezzato “perGenova” a sottolineare lo spirito collaborativo che lo muove, che ieri ha avuto il via libera ufficiale. “Siamo pronti con Fincantieri – ha detto Pietro Salini (foto a sn) – a rifare il ponte in un anno. Andremo a Genova con spirito di servizio e nell’interesse del paese, ma ora il governo affronti l’emergenza dell’edilizia”. Parole chiare che la dicono tutta sul sentimento che alligna tra i costruttori, sempre più determinati a fare la propria parte a condizione che le istituzioni facciano altrettanto.
Tornando al tema generale e confrontando il settore delle infrastrutture italiano con i mercati esteri di riferimento, le aziende italiane non solo hanno dimensioni più piccole in confronto ai colossi europei e globali, ma sono anche molto disomogenee fra di loro: Salini Impregilo, che, come ricordato, è leader di settore, ha un fatturato pari a 6,5 miliardi, quasi il doppio della seconda (la già menzionata Astaldi) e sei volte più della terza in classifica (Pizzarotti).
Quello delle dimensioni non è un problema banale. Guardiamolo un po’ nel dettaglio. Il settore delle infrastrutture in Europa è in espansione: nel solo 2017 gli investimenti sono stati pari a 443 miliardi di dollari, con un incremento previsto di oltre il 4% medio annuo, sia nel 2018 che nel 2019. Per il periodo 2018-2020, nei primi 10 mercati dell’Unione Europea è previsto oltre un trilione di euro di investimenti nel settore. A guidare l’espansione sono: 1) la Germania, che entro la fine del 2018 investirà 58,28 miliardi di euro nel settore, e che, per le infrastrutture federali di trasporto, ha definito un piano strategico di investimenti fino al 2030 per un valore pari a 269,6 miliardi di euro; 2) la Spagna, che negli ultimi 10 anni ha investito circa 450 miliardi di euro, seconda solo alla Germania; 3) la Francia, che nel 2018 investirà 48,2 miliardi di euro, con una crescita stabile anche per i due anni successivi (+ 3% nel 2019 e + 2,6% nel 2020).
Una realtà quella europea della quale la nostra politica sembra non voler tenere conto. I piani di investimento infrastrutturali adottati da molti paesi europei hanno per altro favorito, nei singoli mercati domestici, l’affermazione di imprese leader globali nel settore delle infrastrutture: VINCI (Francia, €40 miliardi di fatturato); ACS (Spagna, €34 miliardi); HOCHTIEF (Germania, €22 miliardi); SKANSKA (Svezia, €16 miliardi). Insomma, tutto indica una direzione univoca. Ciò nonostante fino ad ora il Governo sembra sopraffatto dalla sua ricerca di equilibri interni ed incapace di adottare anche le misure più basilari atte a dare una spinta ad un settore decisivo per le sorti del paese qual è quello delle infrastrutture.