di Redazione

Secondo diversi osservatori internazionali il processo elettorale in Siria è stato influenzato dal nuovo presidente Ahmed al Sharaa, ex leader islamista

Per la prima volta dopo oltre cinquant’anni di dominio della famiglia Assad, in Siria si è votato per eleggere un nuovo parlamento. Il regime è crollato improvvisamente lo scorso dicembre, aprendo una fase di transizione verso una presunta democrazia. Tuttavia, le elezioni tenutesi domenica 5 ottobre sono state largamente criticate per mancanza di trasparenza e inclusività.

Il presidente ad interim Ahmed al Sharaa, ex leader del gruppo islamista Hayat Tahrir al Sham, ha mantenuto un forte controllo sul processo elettorale. Dei 210 seggi parlamentari, solo 120 sono stati effettivamente eletti (anziché i 140 previsti), poiché tre province – Raqqa, Hasakah e Suwayda, a forte presenza curda e drusa – sono state escluse dal voto per motivi di sicurezza. I restanti 70 membri saranno direttamente nominati da al Sharaa, senza quote minime per donne o minoranze.

Il sistema di voto è stato indiretto: circa 6.000 delegati locali hanno scelto i deputati in 50 collegi, con grande disparità nella rappresentanza (il solo collegio di Aleppo contava 700 elettori per 14 seggi). La diaspora siriana non ha potuto partecipare, e tutti i candidati si sono presentati come indipendenti, poiché i partiti legati al vecchio regime sono stati sciolti e non ne sono stati creati di nuovi. Molte restrizioni hanno limitato chi poteva candidarsi: esclusi gli ex membri del parlamento di Assad, chi ha sostenuto cause separatiste o era coinvolto in gruppi armati. Gli elettori stessi, spesso senza documenti o ancora sfollati, hanno avuto difficoltà ad accedere al voto, mentre la campagna elettorale è passata quasi inosservata nelle città.

Nel frattempo, al Sharaa ha introdotto una Costituzione provvisoria ispirata alla legge islamica, che rimarrà in vigore per cinque anni. Il testo garantisce formalmente diritti e libertà fondamentali, ma assegna al presidente poteri estesi, come la nomina di giudici costituzionali e di un terzo del parlamento, sollevando dubbi sulla reale transizione democratica del Paese.

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